Mentre scrivo, mancano davvero poche ore al rientro. Eh già. Il rientro. Già carico di emozione a cose normali. Denso di aspettative e di curiosità. Noi prof siamo una razza strana; ci lasciamo a metà luglio, stanchi, innervositi. Basta con i progetti, il Pcto, le commissioni, il tutoraggio, i coordinamenti. Solo lezione in classe! E poi il primo settembre, come comuni quaquaraquà, ci ritroviamo, carichi come molle, tra scartoffie e sogni a progettare la crescita dei nostri studenti. Tante domande, ma in tasca tutte le risposte. Quest’anno è diverso. Quest’anno mi sento impreparata, come un mio studente dopo tre mesi
[emergenza coronavirus: didattica a distanza] Appena iniziata la quarta settimana di chiusura delle scuole e della didattica a distanza. Terza settimana di video lezioni. Stamani quando ho chiuso l’ultimo collegamento, salutato il mio collega del sostegno che mi “accompagna” in compresenza in tutte le mie lezioni, con gli ultimi scambi di battute, gli ultimi accordi ( messo tu le presenze? mando io gli appunti di oggi? Ok allora ci vediamo domani mattina ) ho pensato a quanto, nonostante tutto, siamo inclini al cambiamento. Quanto siamo rimodellabili per dirlo con un termine tanto già inflazionato. Sono bastati pochi giorni a modificare tutte le nostre
Brutta cosa l’attesa. Se c’è una cosa che non sopporto è proprio aspettare. Sempre stato così. Anche quando la mia prof, seduta perbenino con la schiena eretta e l’occhialino calato sugli occhi, muoveva in su e giù il suo dito ossuto sulla lista dei nomi. Oggi interrogo …. e l’attesa sembrava si dilatasse per un’ora. Brutta cosa l’attesa. Aspettare il semaforo verde quando ancora devi fare la spesa o aspettare che lui ti risponda su whatszapp : “sto scrivendo… “. E poi aspettare che arrivi il Natale, l’estate, le vacanze. Aspettare di perdere 5 kg. Servirebbe uno schiocco di dita.
Oggi sono uscita di casa e l’ho sentita forte ma forte davvero. La paura. L’ho sentita nel silenzio che ci circondava. Un silenzio scomodo e fastidioso. L’ho vista nelle strade e nei parcheggi dei centri commerciali mezzi vuoti. L’ho ascoltata negli scatti aggressivi di qualche collega e nei dialoghi scevri di battute. L’ho percepita nei sorrisi timidi, che non riuscivano neanche a incurvare le labbra. Nelle mani che rimanevano a mezz’aria nella tensione di un saluto. Nello sguardo diffidente dello sconosciuto al banco del bar, mentre sorseggiava il caffè e piano piano indietreggiava portandosi a distanza di sicurezza. Quella distanza
La mia assenza dai social è temporanea ma ricostituente. Io che sui social ci sguazzo da anni senza bisogno di braccioli gonfiabili, ad oggi ho bisogno di prendere fiato. Con la testa a pelo d’acqua e l’animo pieno di amarezza. Non mi piace quello che vedo, quello che leggo, quello che ascolto. Non mi piace la superficialità nei giudizi, l’ignoranza dilagante. Questo sentirmi dalla parte sbagliata anche quando sono certa di essere da quella giusta. Se il terreno sotto i piedi trema, i social non sono il luogo più rassicurante. Magari il più scontato, il più prevedibile, dove ogni maschera sembra
Per un’insegnante di scuola superiore avere tre quinte nell’ultimo anno di corso dovrebbe essere illegale. Insomma dovrebbe essere proibito dalla legge. Sulla carta domani sarà l’ultimo giorno che trascorreremo insieme nelle aule anche se in realtà è stato ieri. L’ultimo giorno di una settimana straziante che ci ha visto vomitare vicendevolmente negli abbracci, nelle parole, negli sguardi tutto l’affetto e tutta l’ansia di un’imminente distacco. E io sto vivendo questi giorni in uno stato di coma vigile ormai ben conosciuto. In poche parole sono devastata e piagniucolante da giorni. Avete presente la sindrome del nido vuoto che prova una madre
Per molti anni ho lavorato la sera come barman ( forse si dovrebbe dire barmaid o barlady poco importa). Circa 7 anni. Di giorno insegnavo, la sera (nel fine settimana ) lavoravo nei locali notturni e discoteche. Era un modo facile per arrotondare in una situazione di precariato e cambiamenti familiari. Volevo essere completamente autosufficiente. Sono cresciuta nei bar di famiglia, so bene come si fa un cappuccino ad opera d’arte, un mohito e un negroni. Quasi come un integrale definito. E’ stato un modo facile per ricreare a 32 anni una rete di conoscenze nella mia nuova città adottiva. Di fatto,
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