Premetto che quanto affermo non mi sposterà di un millimetro dalla convinzione che il mio lavoro è il più bello del mondo. Dopo quello della presentatrice ovviamente, ( ndr: ho sempre voluto fare la presentatrice ). E che il lavoro che svolgo lo faccio nella scuola migliore del mondo, con gli alunni migliori del mondo. Insomma guai a chi tocca il mio orticello.
Però una cosa ve la voglio dire. Ogni prof che ami davvero questa professione, (ma tanto tanto eh), in fondo al suo cuore è un po’ convinto di due cose; la prima di avere una sorta di vocazione, come se avesse ricevuto una chiamata dall’Alto. L’altra cosa è che i ragazzi siano capaci di intuire questa predisposizione professionale e che ne apprezzino la fortuna. Mi spiego meglio.
Nella maggioranza dei casi io entro nelle mie classi fantasticando, come in preda agli effetti di qualche potente droga allucinogena, che le mie ragazze/i non vedano l’ora di fare matematica, che godano della possibilità di accrescere le loro competenze logiche e che terminata la lezione si alzeranno in una ola spontanea e gratificante. Quando devo interrogare immagino che lo studente si avvicini alla cattedra saltellando, stile Heidi con le sue caprette, desideroso di mostrarmi con orgoglio la propria preparazione.
Mentre li scorgo a sorseggiare, durante l’intervallo, il loro Estathè alla pesca ( ma che ci sarà poi dentro?! ), mi pare di sentirli mentre si confrontano su quanto la lezione di matematica sia passata in fretta e su quanto sia stato possibile chiedere chiarimenti senza che io perdessi la pazienza. Perché di pazienza io ne ho tanta, tantissima. E loro lo sanno benissimo.
Quando si riuniscono in assemblea di classe li immagino disposti in circle time a ribadire la passione che molti di noi mettono in questa professione tanto bistrattata, la dedizione e l’affetto nei loro confronti.
Quando incrocio i loro sguardi, leggo una sotterranea simpatia, a tratti anche una certa complicità gelosamente custodita.
E invece no.
Poi mi sveglio e realizzo che la realtà è ben diversa. Un magone mi stringe la bocca dello stomaco. Nella maggioranza dei casi il loro unico salto è nel momento in cui scoprono di non avere matematica ( al salto qualche volta si associa anche un urlo liberatorio). La maggiore riconoscenza è nel momento in cui mi lascio convincere a slittare di un paio di giorni il compito in classe. Le interrogazioni vengono vissute come patiboli e soprattutto la complicità è qualcosa che va guadagnato e non si regala ad un docente compiaciuto e disponibile.
I cancelli servono e ci preservano da relazioni troppo vicine. Vicendevolmente.
E soprattutto non si aprono con il telecomando. Serve tempo. O forse serve solo il telecomando giusto.
Quello che è certo è che domani, dopo questo momento di cinica lucidità, rientrando a scuola, come ogni giorno, ritroverò miei studenti, i loro sorrisi, le loro confidenze, le loro battute sulla mia capacità di imbrattarmi tutta con il gesso, la loro comprensione quando dimentico gli occhiali a casa.
La tentazione di cedere all’illusione di essere amati rifarà capolino.
Ma probabilmente non ci crederò più. Per qualche giorno almeno.
Un bacio. Sa
Immagine creata con Quotes Maker.
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